A Milano, continuano gli scontri nelle case popolari ad ogni sgombero di occupazione abusiva. Anche se l’attenzione mediatica sta scemando (si sa, i media vivono di flirt istantanei), la situazione resta drammatica, anche perchè gli sgomberi purtroppo non possono che rappresentare un’aspirina per una malattia ben più complicata ed estesa. Le periferie delle nostre città necessitano di progetti di riqualificazione urbanistica e sociale, recuperando il sacrosanto diritto alla casa, fondamentale per garantire dignità ad ogni persona, a prescindere dal proprio status economico, poichè base per lo sviluppo della comunità familiare… un obbiettivo di certo non raggiungibile oggi, dato lo stato fatiscente degli immobili e l’alto numero di alloggi sfitti, a causa della mancanza di fondi per le ristrutturazioni.
Una possibile via di fuga è rappresentata da un’operazione molto semplice: la vendita delle case a chi ci vive dentro regolarmente, che dovrebbe avvenire ad una cifra che tenga conto di quanto già versato dall’inquilino in termini di affitto e che – comunque – sia un ‘prezzo popolare’. In tal modo si soddisferebbe immediatamente il principio del diritto alla proprietà e, al contempo, si innescherebbe un automatico processo di riqualificazione. Chi è proprietario di un immobile è infatti incentivato a prendersene cura e soprattutto può occuparsi in prima persona della sua gestione, non dovendo più dipendere dalla trascuranza di soggetti terzi. Il che porterebbe ad una responsabilizzazione dell’inquilino in contrasto al degrado. Ne’ l’affittuario sarebbe obbligato all’acquisto, anzi – inserendo lo strumento della nuda proprietà – si tutelerebbero i più indigenti e gli anziani, permettendo ai giovani di realizzare con un esborso molto limitato il sogno dell’acquisto di una casa.
Un simile meccanismo permetterebbe alle istituzioni di sgravarsi dell’arduo compito della gestione degli alloggi popolari e delle sue spese, recuperando tramite la vendita dei fondi da utilizzare per la loro ristrutturazione o per la costruzione di nuovi immobili. Che, volendo fare un ardito salto di qualità, andrebbero costruiti asservendo la disciplina architettonica per recuperare il concetto di vita comunitaria, ossia per progettare complessi residenziale che favoriscano l’interazione tra gli abitanti, fondamentale anche in termini di sicurezza. E magari, abbandonando l’antico vizio del confinamento delle case popolari tutte elle stesse aree di città – così trasformate in ghetti invivibili regno di criminalità – per spalmare la diversificazione sociale su tutto il territorio cittadino. Così da ridurre la dicotomia tra periferia e ‘salotto bene’.
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